mercoledì 1 febbraio 2012

Che i tuoi cavalli corrano liberi


Scrivo poche righe, forse per sfogarmi, forse perché è l'unico modo che conosco per calmarmi.
Scrivo per una persona, che stanotte se n'è andata, e nemmeno ho fatto in tempo a salutarla.
Mi sento libero di farlo qui dentro, nel Regno dell'Assurdo, perché in fondo anche lui aveva dei tratti assurdi, bizzarri.
La colpa non era certo sua, e di sicuro non me la sento di ironizzare su quello che ha passato.
Ma voglio ricordarlo, anche nel momento in cui le cose hanno cominciato a peggiorare.

La malattia gli faceva vedere un mondo distorto, un mondo confuso tra sogno e realtà: l'altro giorno parlava di cavalli che uscivano dall'armadio, ma piccoli (altrimenti non stavano nell'armadio).
Giocava per ore, raccondando filastrocche alle infermiere; le ricordava tutte, una delle poche cose che ancora lo tenevano ganciato alla realtà.
Sapeva dov'era la sua casa: a volte la indicava, dalla finestra bianca della sua stanza (sempre nella direzione giusta), oppure ne parlava ai medici, raccontando di dove era vissuto, della Corte di Giarola, delle sue pagelle, del lavoro alla Barilla, della pianta di rosmarino.
Raccontava di un passato che gli mancava, un passato dove tutto era reale, e nulla poteva svanire, crudelmente, dai suoi pensieri.

I rimpianti sono tanti: non ho potuto salutarti un ultima volta, convinto che stamattina ti avrebbero portato in una casa di riposo, e la neve ha bloccato tua moglie, in casa, vicina solo con il pensiero alle tue ultime ore.
Eppure il nostro incontro, l'ultimo, non lo dimenticherò mai: nel tuo mondo assurdo, cercando di focalizzare bene chi fossi, mi hai chiesto che tipo di cintura avevo.
Spaesato da una simile richiesta, ti ho detto "normale", come se per me non valesse nulla quella parola.
Il tuo sorriso mi ha fatto capire quanto a volte il "normale" sia lo scoglio al quale aggrapparci in un mare in tempesta.

Il letto si raffredda,
mentre cade la neve.

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