mercoledì 22 febbraio 2012

E le Guglie della Cattedrale ridono

Spilungate forme si innalzano da innominate tombe di pietra, innalzando alla pallida luna un canto tremebondo di morte imminente.
Nell'ombra di una puntuta cattedrale, gialla nel chiarore della notte (il regno dell'ossimoro, l'oscura lucentezza della carne scheletrica), ballano i figli del Male, quello innominabile, alto raffinato, crudo come una lastra di acciaio fredda ed insensibile.
Uccelli neri cinguettano bestemmie sulle teste polverose che scavano, ma verso l'alto; ascendere alla terra, tendenza del morto precoce.
Non si può pensare che ciò che è morto lo sia e basta: le ombre allora non esisterebbero, e le nostre paure inconsce si mostrerebbero come lucide campanule rosa, indifese e coccolose.
La paura ci accompagna per la nera strada, e il Male l'alimenta con le sue forme animali peggiori: chi nega di tremare al verso rauco dell'alloco, stridore di respiro insepolto?
Non puoi battere i tatuaggi del diavolo, ma puoi ascoltare il corvo gracchiare su un busto dimenticato: <<Mai più>>.
I suoi occhi sono fosse dimenticate, dove languono defunti intrisi di dolore e oblio: nessuno sa chi siano, nemmeno loro; si agitano come bestie indemoniate quali sono, rotolando la loro disperazione nel fango bluastro del pallore cadaverico.
Morti annegati che invocano un bicchiere d'acqua, piromani che tentano di rubarlo loro: mondo del rovescio, o rovescio del mondo.

La poesia esprimerebbe molto meglio quello che penso, ma quello che penso è in prosa.

Avventurati nel paese
delle anime dannate,
nel villaggio della dimora celeste,
nella strada persa verso il Paradiso.
Soffermati,
l'angolo di una rumorosa locanda
che sbircia un futuro incerto,
ma finito.
Non lasciarti prendere.
Mai.
Mai più.

Impegnarsi a concludere è il disimpegnarsi dalla vita: un'impiccata sventola, bandiera cruda di un mondo chiuso e gretto; sangue sui bianchi capelli di madre, che si infrange in lunghe onde sulla terra matrigna, sulla natura, che sputa sul mortale.
La sabbia, come la vita, si spegne sotto queste onde, più forti di lei.
I grandi filosofi sono botti vuoti, nelle quali ci specchiamo in cerca delle risposte irrazionali.
Lasciando da sole le statue, esse piangono, avendo sulle spalle millenni di sofferenze sotto i ciechi occhi di pietra, impassibili e forse bisognosi di aiutare.
Busti arcaici da eoni si limitano a godere della sofferenza: cimiteri vuoti attendono il futuro, impossibile da modificare, e certo.

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